Care cittadine e cari cittadini di Stradella, illustri autorità civili, religiose, militari, buon 25 aprile a tutti. Sono onorata dell’invito che mi è stato rivolto di essere qui oggi nell’80° anniversario della Liberazione, ma sono anche consapevole di quanto sia impegnativo parlare oggi di libertà, di diritti, di democrazia, di pace, tutti valori costitutivi della Resistenza italiana e europea, fondamento della nostra Costituzione repubblicana. Siamo immersi in uno scenario interno e internazionale che li vede spesso denigrati, addirittura derisi, e comunque calpestati da leader di caratura e influenza tutt’altro che marginali.
80 anni fa nei nostri paesi questi erano giorni di gioia e euforia collettiva, finiva un incubo, e pur tra macerie e lutti, si guardava al futuro con fiducia e speranza. Oggi guardiamo ai conflitti vicini e lontani con indignazione impotente e il futuro ci suscita profonda preoccupazione. La guerra è tornata nell’aria del mondo, mette radici nel cuore degli uomini, ispira parole e gesti di prepotenza, legittima massacri e proscrizioni, mette il bavaglio e stermina i giornalisti.
C’è infatti un’insidia da affrontare per tutti noi, la disinformazione coltivata dall’alto, il rovesciamento di concetti e parole per una nuova narrazione del passato: ancora una volta è un uso strumentale della storia a fini politici. Nel nostro paese e altrove c’è una neolingua in cammino – come quella di George Orwell nel suo libro 1984 – volta a cancellare pensiero critico e conoscenza storica per alimentare conformismo e subalternità.
Allora proprio a partire dalle parole vorrei dipanare il filo di queste riflessioni, interrogandomi insieme a voi sul loro significato.
Cominciamo da Liberazione, che dà il nome a questa festa e che gli antifascisti, pur di diverso orientamento, vollero come comune denominatore e programma del loro impegno nei CLN, i Comitati di Liberazione Nazionale appunto, sorti clandestinamente per organizzare e coordinare la Resistenza.
Ecco: ma liberazione da chi, da che cosa? Liberazione dall’occupazione tedesca, certo, liberazione da fame, devastazione, paura, sofferenza, tragico retaggio di tutte le guerre.
Sì, ma tutto ciò non era colpa di un asteroide caduto sull’Italia, era il frutto di una dittatura durata vent’anni e poi del suo spietato epilogo nella Repubblica Sociale Italiana, con altri 19 mesi di terrore. Non è possibile discutere di Resistenza senza ripensare a ciò che storicamente è stato il fascismo, precursore e pedagogo di tutti i fascismi europei. La liberazione cui pensavano gli uomini e le donne della Resistenza fu liberazione dal fascismo, quello del ventennio colluso con la monarchia, e quello repubblicano, protagonista di una feroce oppressione al fianco degli occupanti nazisti. Liberazione per che cosa? L’impegno nella Resistenza si sostanziava dello slancio per un futuro migliore, le idee erano diverse su come costruirlo e anche confuse, ma nella pluralità degli orientamenti una spinta condivisa era a riappropriarsi della politica, ossia del potere di decidere e della libertà di partecipazione e di critica, contro il monopolio totalitario fascista.
Ora conviene accorgersi che nel discorso storico pubblico di questi ultimi decenni e soprattutto di oggi il fascismo sembra evaporato, è rimasta poco più di una traccia, un «fascismo immaginario» – possiamo dire – a basso tasso di violenza, di repressione, di coazione. Si è giustamente parlato di una «defascistizzazione retroattiva» del fascismo, delle sue istituzioni e dei suoi protagonisti, i cui connotati liberticidi e i crimini commessi sono minimizzati, specie nel confronto con le realtà coeve del Terzo Reich o dell’URSS.
Se la dittatura italiana è interpretata come variante bonaria di un modello autoritario e totalitario allora è possibile coltivare una narrazione confortante che si dispiega su piani diversi: dipinge il popolo italiano come una vittima, a volta a volta dei cattivi tedeschi invasori o dei bombardamenti alleati; enfatizza una presunta costituzionale bontà italiana, praticata nelle colonie africane, nelle guerre nei Balcani e altrove, e infine fa dei fascisti della Repubblica di Salò i coerenti difensori del patrio suolo insanguinato, da onorare richiamandosi al loro esempio. Ma è tutta una retorica menzognera diffusa ad arte nei talk show come anche nelle sedi e da portavoce istituzionali.
Facciamo qualche esempio.
A proposito di bonarietà vale la pena di ricordare che il fascismo, nella patria di Cesare Beccaria, reintrodusse la pena di morte – 31 furono le sentenze di morte eseguite-, neutralizzò il dissenso creando un tribunale e una magistratura ad hoc che comminò decine di migliaia di anni di carcere (27.735), inviò al confino di polizia 12.330 cittadini e cittadine italiane per veri o presunti reati di pensiero, ne ammonì e sorvegliò capillarmente in Italia e all’estero altri 160.000. Perseguitò fino all’assassinio alcuni oppositori di grande carisma e, dunque, di grande pericolosità politica, come Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Antonio Gramsci, altri si sottrassero a quel destino solo vivendo in esilio. Ma l’evasione dal confino di Lipari e l’esilio in Francia non salvò Carlo Rosselli e suo fratello Nello dall’assassinio su commissione perpetrato in Francia nel giugno 1937.
E sempre in tema di bontà conviene ricordare che le leggi razziali emanate nel 1938 furono solo l’emersione di un antisemitismo e razzismo latenti con una svolta decisiva proprio nei primi mesi della RSI, quando nella Carta di Verona, una sorta di costituzione del fascismo repubblicano approvata all’unanimità il 14 novembre 1943, i cittadini ebrei italiani furono spogliati della loro cittadinanza, di ogni diritto all’incolumità personale e definiti «stranieri appartenenti a nazionalità nemica». Si autorizzò così il piano genocida già in atto ad opera del Terzo Reich, cui i fascisti repubblichini prestarono volenterosa collaborazione.
E quando si farà un trekking in tutta la penisola toccando le numerose ville tristi, i luoghi di prigionia, violenza e tortura dove civili e partigiani, uomini e donne furono brutalmente tormentati per strappare loro informazioni e delazioni su ebrei e partigiani, sulle reti antifasciste da smantellare poi con fucilazioni, impiccagioni esemplari, razzie e incendi? [Ci ricordiamo dell’ex Albergo Savoia, ribattezzato Villa Nuova Italia a Broni, e del Castello di Cigognola teatro delle gesta della banda Fiorentini?]. Si dovrà proporre questo tour ai tanti politici italiani che il 25 aprile decidono di darsi al turismo pur di non presenziare alle manifestazioni del 25 aprile, come la presidente del Consiglio che prevedeva di recarsi a Samarcanda in Uzbechistan, ma ha dovuto cambiare programma per presenziare ai funerali di Papa Francesco.
Un’altra distorsione della realtà storica è tacere il determinante contributo dato dalle diverse polizie e militi della RSI agli arresti dei “banditi”, cioè degli oppositori antifascisti che nelle bande partigiane o nella lotta clandestina si impegnavano nella Resistenza o ancora dei civili che senz’armi la sostenevano. La RSI non fu uno scudo contro l’occupazione nazista, ma tutt’al contrario la rese possibile ed efficiente, fu lo strumento operativo indispensabile del terrorismo della Gestapo e della Wermacht.
Un’altra parola su cui riflettere è patria.
Il fascismo tentò di trasformare il popolo italiano in un popolo guerriero educando i giovani ad un amore di patria che all’occorrenza chiedeva il sacrificio della vita. L’allettamento del «largo ai giovani», praticato con successo durante il Ventennio, si concluse però con la chiamata alle armi di quegli stessi giovani per le guerre di conquista del regime, guerre coloniali, di espansione mediterranea, mai guerre di difesa. Fu un’irresponsabile politica di potenza che decimò la gioventù italiana e che, in definitiva, alimentò la scelta di tanti, reduci dalla Russia o dai Balcani, di riprendere in mano il proprio destino e, con una presa di coscienza antifascista, diventare oppositori e partigiani.
Mentre torna disgraziatamente di moda parlare di sacro egoismo, di fare di nuovo grande la patria/ nazione, ricordiamoci che il mito imperiale fascista – l’impero che tornava sui colli fatali di Roma era una versione spietata, ancorché velleitaria e fallimentare, di questo nazionalismo, del disprezzo dei popoli e delle culture altrui, in nome di una supremazia di razza e di civiltà che esigeva spazio vitale, risorse e dominio su altri. In conseguenza di quel mito l’Italia tagliata in due fu teatro di una guerra combattuta palmo a palmo come mai nella sua storia dall’unità in poi e rischiò smembramenti e limiti alla sua sovranità.
«La nostra patria – ha scritto Carlo Rosselli – non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi».
Di recente un politico malaccorto, il presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio, ha citato gli alpini caduti nella campagna di Russia come patrioti che avrebbero dato la vita per la nostra libertà: amnesia o colposa ignoranza? Il Corpo speciale italiano (CSIR) fu inviato in Russia al fianco della Wehrmacht non in difesa della nostra libertà, ma per opprimere quella altrui. Fu una guerra d’aggressione riuscita disastrosa e gli alpini ne furono, non gli eroi, ma le vittime senza alcuna possibilità di rifiutarsi alla coazione militare.
Una parola di cui allargare l’area semantica è «staffetta».
I più giovani forse pensano che indichi soltanto una tipologia sportiva, la corsa a squadre, ma la parola si radica profondamente nel lessico resistenziale, perché il ruolo di staffetta fu a lungo utilizzato come categoria esclusiva in cui archiviare il contributo femminile alla guerra partigiana e all’opposizione antifascista. In realtà ricerche recenti ampliano a dismisura la realtà storica di questo impegno, facendo riemergere non solo una minoritaria ma non irrilevante collaborazione femminile alla Resistenza in armi, nei gap urbani e nelle bande, ma portando alla luce una Resistenza senz’armi che costituisce l’indispensabile rete di supporto logistico grazie alla quale fu possibile ai partigiani di sopravvivere, specie nel durissimo inverno del ’44 . Lo stereotipo della ragazza in bicicletta che porta messaggi, sfidando posti di blocco e perquisizioni, va completata ricordando che, a piedi o con altri mezzi, le donne trasportarono ordigni esplosivi e armi per sabotaggi e attentati, cui parteciparono; che sempre loro curarono e salvarono feriti, li nascosero e nutrirono, che provvidero a diffondere gli ordini sulle operazioni da svolgere e a raccogliere informazioni sui movimenti nemici. All’epoca ancora non la si chiamava così, ma si trattava di una vera e propria attività di intelligence e di organizzazione, che esponeva a rischi non minori di quelli dello scontro armato. Un impegno la cui pericolosità era riconosciuta dal nemico, che inflisse a molte di loro a prigionia e torture, stupri e fucilazioni.
Dalle molte testimonianze raccolte poi tra protagoniste della Resistenza emerge che questa fu per molte di loro anche un’esperienza esistenziale decisiva, ne mutò gli orizzonti e aprì prospettive e promesse di emancipazione ancora oggi in parte disattese.
Deportazione: si torna a parlare con disinvoltura ai nostri giorni di deportazione, si allestiscono supercarceri come in Salvador, dove si deportano senza processo migliaia di stranieri indesiderati negli Stati Uniti; si aprono campi di internamento in Albania destinati a migranti richiedenti asilo giunti in Italia. Ma abbiamo dimenticato cosa ha significato deportazione nella storia del nostro paese? La deportazione italiana ci appare nella sua sconvolgente realtà di un fenomeno di violenza, schiavitù e morte di massa sia quando guardiamo alla sorte dei cosiddetti “politici” che a quella degli ebrei. Tra l’8 settembre 1943 e la primavera del ’45 oltre 40.000 italiani deportati in vagoni piombati andarono incontro a destini diversi. Gli studiosi hanno identificato i nomi di 23.826 italiani (22.204 uomini e 1.514 donne) arrestati e deportati nei lager nazisti per motivi politici. Di questi 10.129 non tornarono. Tra i triangoli gialli della deportazione razziale gli italiani fin a oggi censiti furono 6802, ne sopravvissero 837. Solo da Pavia e provincia 300 casi di deportazione, che coinvolsero operai antifascisti, studenti, renitenti e partigiani delle colline dell’Oltrepò, sacerdoti, ebrei, e le donne, le tante donne che pagarono con la deportazione la scelta antifascista.
Ricordiamo anche il test sfavorevole alla RSI dei 650.000 prigionieri italiani internati in Germania, che rifiutarono in gran maggioranza di arruolarsi sotto le insegne della RSI pur sapendo che accettando si sarebbero aperte le porte dei lager.
Allora era la condanna per una scelta politica di opposizione o per discriminare un’identità (ebrei, zingari, omosessuali) ritenuta negativa, ora la deportazione è la risposta ai movimenti migratori.
Eppure la nostra memoria storica dovrebbe averci insegnato a scartare la deportazione di esseri umani come un modo per risolvere i problemi e a rispettare in ognuno la dignità della persona, i diritti fondamentali. Nella sua lettera ai vescovi americani papa Francesco ha scritto: «Deportare persone che in molti casi hanno lasciato la propria terra per motivi di estrema povertà, insicurezza, sfruttamento, persecuzione o grave deterioramento dell’ambiente, lede la dignità di molti uomini e donne, e di intere famiglie» e ancora uno Stato di diritto si conferma tale «quando la società e il governo, con creatività e rigoroso rispetto dei diritti di tutti, accolgono, proteggono, promuovono e integrano i più fragili, indifesi e vulnerabili» [febbraio 25].
Infine una parola straniera che contesto è helper. Gli anglosassoni hanno deciso di chiamare così tutti gli italiani e le italiane impegnatesi nell’assistenza ai cosiddetti Pow, prisoners of war, che dopo l’8 settembre, evasi dai campi ove erano rinchiusi, cercarono di sfuggire alla cattura nazifascista, trovando rifugio in Svizzera o entrando nelle bande partigiane. Contesto l’espressione usata, perché mi pare sminuisca una vera e propria operazione di salvataggio collettivo, messa in atto con generosità da italiane e italiani, in campagna e in città, pur nella consapevolezza del rischio della vita corso in tal modo.
C’era stato un precedente in questa operazione di salvataggio: dopo l’8 settembre i soldati dell’esercito italiano lasciati allo sbando dalla politica irresponsabile e criminale della monarchia e dei comandi, in buona parte scelsero l’opzione del «tutti a casa», sfidando la cattura tedesca e passando tra le maglie del fronte e dei controlli. In quei giorni ebbero aiuto e salvezza nelle case di tutt’Italia. Scrive al proposito Alcide Cervi, il padre dei 7 fratelli fucilati dai fascisti a Reggio Emilia il 28 dicembre 1944: «la popolazione faceva come le sabbie mobili e inghiottiva i soldati per salvarli dai tedeschi ».
Questo salvataggio di massa ebbe una replica diluita nel tempo e fu circoscritta al centro-Nord Italia, dove si trovavano l’8 settembre circa 80.000 prigionieri stranieri, britannici e americani, ma anche neozelandesi, africani etc. tutti smistati in campi di prigionia apprestati alla bell’e meglio, utilizzando spesso dimore patrizie, castelli etc. Di recente Carlo III in visita in Italia ha voluto esprimere la profonda gratitudine del suo paese – cito « alle molte centinaia di coraggiosi civili italiani che hanno dato rifugio ai soldati britannici e alleati, rischiando così la propria vita». Un riconoscimento apprezzabile, meno apprezzabile l’errore di scala nel riferirsi a quel fenomeno: non furono centinaia, ma migliaia le italiane e gli italiani che nascosero, nutrirono e alla fine portarono in salvo i Pow. Le richieste di riconoscimento di questa attività presentate alla fine della guerra a Washington furono diverse decine di migliaia (solo dal Pavese 662). Sono ricerche tuttora in corso, promosse da associazioni di veterani e discendenti di quei “salvati”- come il Monte san Martino Trust-. Non sappiamo in realtà quanti furono i cosiddetti helpers, la Gran Bretagna fu molto parca di riconoscimenti dopo la guerra, e d’altronde non sempre i protagonisti di quelle vicende si attivarono per ottenerne un riconoscimento. Mi permetto una nota personale
Ho conosciuto Gigi Negri, nipote di Gaetano Silvio Negri detto Nino, deportato a Flossenbürg col transport 81. Nino Negri gestiva la mensa della V sezione delle Officine Breda a Sesto San Giovanni e, appresa la presenza di 100 ex-prigionieri alleati evasi dal campo di prigionia allestito nel castello di Lardirago, decise di dedicarsi al loro salvataggio. Prese forma così un comitato di soccorso insieme al medico del paese, Cesarani, comitato che divenne poi il C.L.N. di Lardirago. Gigi Negri mi raccontava che giovanissimo a lui toccava il compito di accompagnare con un tandem i prigionieri a Sesto San Giovanni, partendo all’alba e scegliendo strade di campagna. Una volta raggiunto lo zio, questi provvedeva alle tappe successive del passaggio clandestino della frontiera svizzera. Gigi Negri, giovane centenario scomparso lo scorso anno, raccontava con grande semplicità quelle sue corse in tandem, come cosa di poco conto per lui che era poco più di un ragazzo all’epoca. Quanto allo zio, arrestato su delazione, morì a Hersbruck il 4 febbraio 1945.
Quante altre storie come questa non conosciamo ancora. Storie di assunzione di responsabilità, storie di scelta di rischi senza tornaconto personale, storie in cui si paga un prezzo altissimo per un impegno morale e/o politico.
In un’intervista di qualche anno fa Luchino Dal Verme, il leggendario Maino comandante della divisione garibaldina Antonio Gramsci, operante in Oltrepò disse dei suoi partigiani: « non so quanti fossero comunisti e quanti no, ma so quanti morirono per la libertà di tutti noi».
Per la libertà, per la pace, per la democrazia: tutte cose che non cadono dal cielo, deperiscono senza un costante, appassionato impegno di critica, di partecipazione, di manutenzione. Non contentiamoci di una democrazia delegata, scrolliamoci di dosso questa pericolosa crisi di partecipazione, e risentiamo la responsabilità del nostro diritto/dovere di votare alle elezioni, ai referendum – ce ne sono di prossimi e cruciali per il nostro paese -, non lasciamo scivolare questa eredità ricevuta dal passato lungo la china delle democrazie illiberali che si moltiplicano sotto i nostri occhi. Riprendiamoci la politica, ripensiamola, ridiamo forza e impegno alla nostra partecipazione attiva e rifiutiamo la scorciatoia del disincanto.
Concludo con la parola sobrietà. Non so se il ministro della Protezione civile che ha raccomandato sobrietà nelle celebrazioni del 25 aprile ne abbia frequentato molte in passato. In quelle che ho frequentato io, non ho mai visto baldorie sguaiate, ma riflessioni, discussioni, come è giusto che sia in un paese democratico, omaggi ai caduti, riti religiosi, insomma nulla di men che composto, giustamente evocativo di sofferenze e lutti.
Se poi si ritiene che celebrare il 25 aprile sia un problema di ordine pubblico e turbi l’omaggio al Papa che ci ha appena lasciato, allora credo al contrario che proprio ricordando i valori della Liberazione si renda un autentico e non formale omaggio a Papa Bergoglio. Per tutti gli anni del suo pontificato e fino alla morte ha rivolto ai potenti del mondo e a tutti gli uomini di buona volontà appelli per la pace, per il «disarmo delle menti», contro lo scandalo della povertà e dell’ingiustizia sociale, contro le discriminazioni razziali, per la tolleranza e il rispetto della dignità di ciascun uomo, per il suo diritto al lavoro e il suo dovere di preservare la Terra dalla predazione. In piena sintonia dunque con il patrimonio di idee ispiratrici della nostra Costituzione repubblicana, figlia della Resistenza.
Elisa Signori